E Dioniso si abbatté anche su di me…
Se c’è uno spettacolo in cui io ho fatto una scenografia tutta sbagliata quello è Baccanti, se c’è uno spettacolo che mi è costato di più in termini di paura (di andare in Albania) e fatica (sono pure finita all’ospedale!) quello è Baccanti. Ma se c’è uno spettacolo che amo sopra a tutti quello è Baccanti. Dopo quello spettacolo come giovane scenografa mi sentivo prossima ad un fallimento precoce. E mi ero ripromessa che avrei lasciato se non fossi riuscita a fare meglio alla prossima occasione.
Che per fortuna ci fu… e dopo quella ce ne furono tante altre.
Così si aggiunsero a noi sempre più compagni. Per fortuna crebbe anche il popolo del dietro le quinte (e io smisi di finire al pronto soccorso). Eh sì, il teatro lo si fa insieme, lo si può fare solo in molti perché è troppo complesso. Tecnici, macchiniste, costumisti, elettriciste, fonici, light designer, attrezziste, scenografi, falegnami, pittrici di scena, scenotecnici, fabbri e tanti studenti che vengono a bottega e insieme a noi, accanto ai mestieri più antichi ne inventano anche di nuovi per nuove forme di teatro, creatori di opere d’arte partecipata e chissà cos’altro.
Oggi tento in qualche modo di ringraziarli e di rappresentarli. Se fossero qui sul palco anche solo quelli presenti in sala sarebbero, come sempre, molti di più di quel che si immagina.
Noi del dietro le quinte ci esprimiamo davvero attraverso gli oggetti, i materiali, i suoni, le luci, i colori. Mettiamo le nostre emozioni e i nostri pensieri più fini, in queste cose. In esse raduniamo tutte le nostre risorse. Usciamo da noi stessi e ci mettiamo nel legno, nel colore, nella luce, nel suono. Diventiamo queste cose, mentre le nostre ombre restano dietro le quinte.
Ricordo come mi fu del tutto naturale reggere una corda che si era sganciata durante il Romeo e Giulietta, su cui si teneva l’impianto di funi e teli sospesi che componeva la scena. Mi fu del tutto naturale stare lì per l’intero secondo tempo, senza rendermi conto che ero in scena! Per me io ero soltanto una corda.
Per questa ragione di invisibilità, ma a questo punto dovrei dire di comportamento metamorfico, avrei voluto nominare tutte queste persone una ad una e mi ero ripromessa di farlo. Quelle che hanno nel tempo lavorato con noi, quelli che siamo ora e quelle che si stanno timidamente affacciando. Ma non posso perchè ho troppa paura di dimenticarne anche solo una ed è l’ultima cosa che vorrei.
Per esempio questa nave è stata realizzata per Atir da persone che hanno l’età di Atir, circa 25 anni. Cioè sono nati quando noi ne avevamo 25 e fondavamo la compagnia. Quale miglior regalo?! Quale più vivida sensazione di futuro? In questa impresa sono state aiutate da chi in Atir si è formato e poi è andato, da chi è andato e poi tornato e da chi come me è sempre qui a giocare e ad accogliere.
A nome di tutti noi che stasera rappresento ora vorrei ringraziare Atir cioè questo gruppo che si è unito nel 1996 e che diventa sempre anche luogo e, molti molti luoghi è diventato: tutti gli spettacoli che ha fatto, i festival, il teatro Ringhiera, le invenzioni, gli eventi, questo piazzale. Atir diventa sempre un luogo in cui tutto si può provare fare. Grazie dunque a queste persone di Atir, che sono i miei compagni, perché continuano indefessamente a rendere possibile tutto questo.
Perché sono le persone a generare le possibilità, i luoghi e i loro colori.
C’è come una linea azzurra che attraversa la storia dell’umanità, il suo respiro di civiltà. Che ci arriva dall’antico passato e che viaggia attraverso di noi. Che usa le nostre vite, se l’accogliamo, per mantenersi azzurra.
Azzurro come questo anfiteatro che abbiamo appena finito di dipingere tutti insieme, spettatori compresi, che ci arriva dal passato, che ora è qui che scorre sotto i nostri piedi, allargandosi come i cerchi nell’acqua e la voce nell’aria.
E che non si sa dove finisce.
Maria Spazzi
6/6/21 – Piazzale Fabio Chiesa
È tutta colpa… sua!
Scusate. Buonasera.
Se ora vi tocca ascoltare queste parole da me scritte, è tutta colpa di Serena. Prendetevela con lei.
Ma proprio a me doveva affidare il compito di scrivere una dedica per il 25esimo compleanno di Atir?!
Una dedica che rappresentasse lo sguardo degli attori, dei miei amici e colleghi?!
E dove le trovo le parole, io che a volte mi dicono dislessica, che preferisco fare i versi animaleschi, abbaiare, piuttosto che dire una frase completa di soggetto e predicato?! (insulti incomprensibili…)
Santo Cielo…Boh…vediamo…Penso… Ripenso… a quando ho iniziato, a voler fare l’attrice.
Ripenso al mio bisogno informe di comunicare, fine a se stesso, perchè strabordavo di materia umana, fatta di emozioni, gioie e dolori, che volevo vomitare.
Non ancora condividere, non ancora canalizzare.
Ancora senza un senso.
“Cani sciolti” era la definizione che sentivo ripetere riguardo al futuro degli allievi attori della Scuola D’arte Drammatica.
“Cani sciolti”, ognuno per sé, alla ricerca della propria realizzazione, della propria carriera, della propria identità.
Nella selva oscura… sola… a difendermi per sopravvivere…
E…E invece…sbatto il mio muso contro quello di Serena, e poi contro quello di Maria, di Pilar, di Arianna, di Nadia, di Mattia, di Stefano, di mille compagni, per fare l’avventura del teatro, insieme. Ed è qui che iniziai ad incontrare il senso.
Insieme. Cioè…possiamo condividere le difficoltà, le gioie, possiamo aiutarci, consolarci, possiamo anche litigare, qualche pugno qua e là (una volta ero un po’ manesca…).
Insomma, come donna, come attrice, come persona, posso dire, e credo a nome di tutti i miei colleghi, di essere stata fortunata. Non a tutti è concesso di tirare un pugno e poi essere compresi e perdonati.
Scherzooo…
Ho scoperto di quanto sia fondante recitare in uno spettacolo, dopo aver fatto, certo, ore e ore di confronto sulle tematiche di un testo, di allenamento fisico e vocale, ma anche ore ed ore di assemblee, ore di viaggio, dove si cantava e si rideva, e si faceva i buffoni, dove io guidavo il furgone e mi arrabbiavo se non me lo facevano fare.
Ore di riscaldamento e di concentrazione insieme, di condivisione dei propri bisogni fisiologici e della saliva carente prima di entrare in scena.
Ore di catarsi, e poi ore di smontaggio, la catena dell’amore, ah, quanto l’abbiamo amata la catena dell’amore! E poi le cene, ad abbuffarci, a ridere, a piangere, a sclerare, a cantare a squarciagola.
Ecco, però su questo no! Non mi piace quando gli attori urlano così, un po’ di educazione, per la miseria… dai, che figure…e poi, sempre al centro dell’attenzione, sempre io, io, io, io…ecchèccavolo! Epperò, questi “Io” qui, sono quelli che possono regalarti materiale umano a ondate, e travolgerti e penetrarti fino ad aprire il tuo sarcofago ricco di emozioni sopite o sedate dalla buona educazione.
Ringrazio con tutto il cuore i miei compagni, qui presenti, ma anche tutti quelli che abbiamo incontrato lungo la strada, e che hanno raccontato storie insieme a noi… gli attori… che sanno regalarti gioia, risa o dolore e parole alte che si alzano e camminano come Lazzaro.
L’importante è che l’attore sia sincero, in ascolto, all’erta… semplicemente uomo.
Sandra Zoccolan
6/6/21 – Piazza Fabio Chiesa
“Mi conosciiiii?”
Apro un solo occhio e con quello chiuso cerco di dormire ancora un po’, perché siamo tornati a notte fonda da una replica del Romeo e Giulietta, l’ennesima di una tournee infinita in giro per l’Italia (era il 2000, altri tempi!)… Sono distrutta… Ma poi chi m’ha cecato a me? Chi me l’ha fatto fare di recitare? Ma vabbé, adesso è meglio che non ci pensi… devo cercare di riposarmi… questo pomeriggio riparto per un’altra replica.
“Mi conosciiii?”
Cerco di mettere a fuoco con il solo occhio aperto e di capire chi diamine sia davanti al mio letto alle 10 di mattina mentre io vorrei dormire!
C’è un omone grande quanto un armadio, con la zazzera brizzolata e un cappellino da teenager con visiera, che in maniera compita tiene tra le mani un fiore appassito (quello più economico che il mio fidanzato, suo educatore, avrà trovato dal fioraio) e mi si rivolge con voce acuta da bambino.
“Mi conosci? Vuoi un caffè?”
A questo punto, addio pisolo mattutino… Mi alzo con la cispa ancora negli occhi e vado in cucina con lui e con il mio fidanzato educatore a bere il caffè.
Scoprirò poi che l’omone saluta sempre così “Mi conosciiii ?” anche se ti ha visto un’ora prima, e che il caffè gli piace da morire.
Questo è solo uno degli incontri fuori dall’ordinario che, grazie al mio futuro marito e ai suoi amici educatori, faccio tra una replica e un’altra. Fortunatamente non tutti al risveglio davanti al mio letto!
Volti di tutte le età, condizioni, culture. Persone che non guarderei nemmeno o guarderei con sospetto se le incontrassi per strada, che invece al fianco degli educatori che le accompagnano emergono come figure di un bassorilievo e acquistano grazia. Come se la presenza discreta dell’educatore, il suo sguardo, mi permettessero di vederle per davvero e di conoscerle. “Mi conosci?”
Il lavoro dell’educatore mi incanta e contemporaneamente mi sembra così familiare… Perché?? Ma si, ecco! E’ come quando Serena fa lavorare noi attori. Ci allena ad un ascolto attento, che ci permetta di riconoscere quello che accade in scena, di dargli spazio e di farlo riconoscere a chi guarda… Scusami Sere se uso parole così semplici e imprecise… Lo sai che ormai l’attrice non la faccio più… Ecco insomma, volevo dire che l’educatore fa la stessa cosa che fanno gli attori, però… con le persone che segue. E’ il modo in cui le affianca che permette alla comunità di vederle con uno sguardo nuovo, come se fosse la prima volta, e di riconoscerle. Solo che il palcoscenico dell’educatore è la città!! Bar, campi da calcio, parchi, cinema, sportelli comunali, strade piazze… e chi più ne ha più ne metta! Quanto mi manca il fuori, la città… Non ne posso più di star chiusa nei teatri e nelle sale prova…
E’ il 2000, ho appena 26 anni e decido di non fare più l’attrice, che tanto si è capito che proprio non ce la faccio, e di inventarmi qualcosa con gli educatori che ho conosciuto e con i miei compagni di ATIR, un progetto che ci permetta di mettere a confronto il teatro e l’educazione: gli educatori possono affinare e approfondire le proprie capacità di ascolto e noi che facciamo teatro possiamo allargare il nostro palcoscenico alla città, raggiungendo persone invisibili ai più, offrendogli uno spazio protetto e potente per raccontarsi e per farsi riconoscere dalla comunità . Mi conosci?
Quando condivido con i miei compagni e gli educatori questa idea, la risposta è immediata: SI.
Da allora, da quel lontano ottobre del 2000, comincia un’avventura che non è mai finita. Un percorso di contaminazione tra saperi talmente profondo che oggi posso dire di essere diventata quasi un’educatrice… E i miei compagni eccellenti formatori di teatro sociale. E tanti educatori, attori.
Il mio primo grazie va a loro, agli educatori: Chiara, Max, Caterina, Valentina, Federico, Graziano, Lorenzo, Francesca, Andrea, Michele, Alice… e tantissimi altri.
Li ringrazio perché ci hanno insegnato che per raggiungere le persone bisogna uscire per strada, andare nei loro luoghi, avere la curiosità di ascoltarle, senza fretta, dimenticando persino che vuoi raggiungerle… darsi tempo e stare a vedere che cosa accade… se accade.
Ringrazio tutti i miei compagni, ad uno ad uno, perché con la curiosità che li contraddistingue hanno fatto proprio il sapere degli educatori, aggiungendovi poi la visione, la creatività e lo slancio di cui loro solo sono capaci e senza cui le persone diverse che incontravamo non si sarebbero fermate da noi, sentendosi a casa qui.
Grazie alle organizzatrici pazze che si sono appassionate ai nostri progetti sociali senza un soldo… grazie Francesca, Emanuela e Valentina.
Ma il grazie più grande è proprio alle persone dalle storie diversissime che abbiamo incontrato e invitato a partecipare ai nostri laboratori e progetti. Persone che con fierezza si son messe in gioco condividendo le proprie fragilità, che si sono mescolate con curiosità ad altre persone e ad altre storie, andando a costruire una comunità variopinta, trasversale e sovversiva la cui forza dirompente questa piazza restituisce alla città.
Nadia Fulco
6/6/21 – Piazza Fabio Chiesa
E chi l’avrebbe mai detto Nadia, tu a passeggio per la città con l’utenza e io sul palco con gli attori…. io che prima di conoscer ATIR il teatro manco sapevo cosa fosse realmente. L’ultima volta che ci andai fu perché mi trascinò la mia fidanzata e… mi addormentai. Potete immaginare come finì con la fidanzata. E se ti ricordi io all’inizio questo SI mica l’avevo pronunciato. Diffidavo, che ci azzecca il teatro con il lavoro che faccio? Ma poi voi mi avete aperto un mondo nuovo. Ci avete aperto un mondo nuovo. A voi va il nostro grazie. Il mondo è sempre lo stesso ma lo guardiamo e lo ascoltiamo con nuovi paradigmi. Grazie all’incontro con ATIR abbiamo cominciato a modificare lo sguardo, spostando limiti e confini, trovando più profondità e verità nella relazione con l’altro. L’altro che è così importante.
E poi divento socio, e mi trovo qui su questo palco insieme a voi a festeggiare i 25 anni di ATIR. Un educatore nell’assemblea soci di una compagnia teatrale. Voi siete matti, matti da legare, parlo di quella follia sana e necessaria oggi più che mai, e che mi ha fatto… innamorare di questo gruppo. E io mi ci ritrovo in questa follia fatta da: il pensiero inclusivo, la ricerca e il desiderio di crescere sempre anche esplorando territori impervi e sconosciuti, l’apertura ad una pluralità di sguardi e linguaggi, la voglia di integrazione, e uno spirito di resilienza che travalica l’umano sentire.
Ma tra tutte queste qualità mi soffermo su quella che per me le contiene tutte: la cura. Aver cura significa avere a che fare. La cura non solo si interessa, ma partecipa, non è mero meticoloso zelo. È un concetto senza sinonimi (forse, in una certa misura, potrebbe esserlo amore?). Promette una comunicazione, una complicità, un senso condiviso. La cura è un modo d’essere coinvolti.
E di questo parla il viaggio che abbiamo iniziato nel 2019, il progetto di comunità “Odissea storia di un ritorno” in collaborazione anche con l’Accademia di Belle Arti di Brera: 9 laboratori che abbracciano trasversalmente una variegata umanità (over 60, adolescenti e preadolescenti, king, adulti, persone con disabilità) e che confluiranno in un grande evento che li vedrà tutti insieme in scena (distanziati, eh!) e diretti da Serena nostromo di questa nave costruita che è pronta a salpare……
Max Pensa
6/6/21 – Piazzale Fabio Chiesa
Tutti sanno che preferirei essere chiusa in ufficio a preparare una rendicontazione per il ministero piuttosto che stare su un palcoscenico, ma questa volta non sono riuscita a sfuggire: l’occasione è speciale.
Mi hanno chiesto:
prepara una dedica – tua e di tutta l’organizzazione – per la serata dei 25 anni.
First reaction: shock.
Poi ho pensato di cogliere l’occasione per rispondere alla domanda che – lo so – si annida nei cervelli di molti:
ma voi, negli uffici, che diavolo fate tutto il giorno!?
Di sicuro non recitiamo
a volte balliamo – ma solo per piacere
ma di sicuro performiamo.
Solo che, mentre sul palco i nostri cari soci Atir declamano tragedie greche, essere o non essere e grandi autori,
noi negli uffici ci abbandoniamo a battute che suonano un po’ così:
– Non mi interrompete che domani scade la domanda ministeriale
– Se non ci saldano le fatture dovremo chiedere un anticipo alla banca!
– Maria, hai visto la bozza? Siamo in ritardo per la stampa!
- In che senso “il fonico non è disponibile per la tournèe”!? Dobbiamo trovare subito un sostituto!
– Serena, dobbiamo chiudere la programmazione della stagione entro lunedì!!!
– Prevendite ne abbiamo!?
– Va bene il comunicato? Domani dobbiamo spedire ai quotidiani!
– Così sforiamo il budget!
Ecco: un flusso continuo di
domande
risposte
preparativi
consuntivi
riepiloghi
rendiconti
convocazioni
bandi, bandi e altri bandi
riunioni, riunioni e ancora riunioni!
E anche se le nostre battute non sono esattamente quelle di Elettra o di Amleto, cerchiamo di metterci se non il pathos, di sicuro la passione.
Sono passati 7 anni da quando sono qui, ma sembrano 27!
In 7 anni il caso – o il destino – ci ha messo continuamente di fronte a imprevisti, emergenze, difficoltà, sorprese
neanche fossimo dentro un gioco a livelli sempre più difficili!
Se l’organizzazione è [cito dalla Treccani]: “un’attività intesa a organizzare, cioè a costituire in forma sistematica un complesso di organi o di elementi coordinandoli fra loro in rapporto di mutua dipendenza in vista di un fine determinato”, come adattarla all’anarchico ma allegro caos dell’ATIR?
Questa è una domanda a cui da 7 anni cerco di dare una risposta ma non l’ho ancora trovata. Se qualcuno ce l’ha mi trovate là dietro!
Perché gli ingredienti sono tanti:
coordinamento
ascolto
disponibilità
decisione
pazienza
delega
improvvisazione
rigore
cura
creatività
Ma la formula… quella resta ancora segreta! Più di quella della Coca Cola!
Un grazie quindi a tutti quelli che lavorano con me dietro le quinte: Francesca, Valentina, Raffaella, Nadia, Maurizia, Gabriele, Alberto, Anna, Camilla, Daniela.
E grazie a tutti voi, soci Atir
100 di questi giorni e altri 25 anni almeno di paura e delirio sulla Piana.
A volte ci scorniamo, ma ci vogliamo bene.
Ora però vi saluto, c’è un bando fresco fresco che mi aspetta!
ATIR, buon compleanno!
Anna Chiara Altieri
6/6/21 – Piazza Fabio Chiesa
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